ALCUNI MODI DI DIRE  

   

Acqua alle papere!  

     Evviva, tutto ci va per il meglio (come l’acqua agli anatidi).

  

A do’ chiove, pare la scifa[1].    

     Qualunque cosa accada, non me la prenderò più di tanto.  

 

Alla cama! o Alla paglia!

     Quest'oggetto non serve più: gettiamolo alla pula (o alla paglia) e diamogli fuoco.

 

Ammazza ammazza, è tutta ‘na rrazza.

     Son tutti uguali: impossibile distinguere il migliore dal peggiore.

                                        

A me chi me battézza, m'è chempare. 

     Per me va bene chiunque (indipendentemente dal colore della sua bandiera), purché io possa trovarci un vantaggio. 

 

Ancora nne lampa i già te fè cróce?!

     Càlmati, reagisci a sproposito (o troppo precipitosamente).                

 

Apuó… apuó… Apuó se féce arrebbà la móglie.

     Sposala ora la ragazza, prima che se la prenda qualcun altro.

     Non rinviare a dopo quello che puoi fare adesso.

    

Arre i porta a casa!

     Approfittiamo dell'occasione propizia, ora, senza farci troppi scrupoli.

 

A té te suo’ cresciute glie pire arrèt'alla schina.

     Ti son cresciuti i peli dietro la schiena, cioè nel punto sbagliato.

     Ti prendi troppa  confidenza: rimedierò con le tortorate.

 

Aùh! (Forc.) 

     Oh, povero sciocco! E tu vorresti darla a bere a me?

 

A vache a vache se rrégne la pegnata.

     Non devi sciupare nulla, neanche le cose più insignificanti, se vuoi fare qualche profitto.

 

Beiate a té!   

     Beato te, che sei così incosciente da non capire la gravità del momento.

 

Beiat'a té, iaglienèlla mi’, ca nne vè 'lla scola!

 

Bevémece ‘sta jozza (ca' sse nne ‘mpréna, renfrésca).

 

Bone saétte! E’ abbreviazione di Bone saétte che se sprècane pe ‘sse pónte 'e mentagna!   

     Peccato che tante saette cadano sulle cime dei nostri monti anziché cadere, molto più utilmente, sulla tua testa, così la smetti di dire (o fare) sciocchezze.                 

 

Bona zappa! È abbreviazione di Bona zappa a spasse!,

     che è come dire

Bone pèquera!, che è abbreviazione di Bone pèquer’a spasse!

     Anziché stare qua a dire (o fare) sciocchezze, perché non te ne vai da qualche altra parte a fare qualcosa di più utile?

 

Cala (il prezzo), ca vinne!

     Di' meno  balle, se vuoi essere creduto.

                           

Canta, merlo, ché la fratta è lunga. 

     Sparla pure, tu, tanto quello che vai dicendo non mi scalfisce minimamente.

 

Ce passa glie san Gevanne!

     Questa volta dobbiamo comportarci correttamente,  poiché c'è di mezzo il comparatico (S. Giovanni  bettezzò Gesù). Apuó, quanne nce passa niènte, ... vedéme cómme se pò fà.

 

Ce pozza penzà Santa Ténna[2], a tè! (Ma a fàtte stà zitta, prò!)

 

C'è, scì, pegnatèlla; ma nno de chélla créta.

     E', sì, una pignatta; ma non di  quell'argilla che sappiamo noi: buona, compatta e resistente.

     Quello sembra (o crede di essere) un uomo di valore; ma in effetti è ‘ne sciacquitte de… càseta.   

 

Ce se tèa nasce querretóre!

     Corridore si nasce, non si diventa.

     Ovverosia: Chi nasce quadre, nne mòre tunne.

 

Ce so’ data la biava.

     Gli ho dato le busse, che sono il cibo quotidiano degli asini (come la biada).

                                                     

Chélla: ‘nnènze te fa ‘na faccia i arrète ne fa ‘n'atra.

     Quella con te si mostra leale, gentile e rispettosa; però poi quando si trova con le altre (compaesane), te ne dice di cotte e di crude.

 

Chésse dura Natale i Sante Stèfane.

     Quello che stai facendo, non ha valore alcuno: dura poco.

 

Chésse è cómm'a ‘na fravela ‘mmócc'agli urze.

     Il tuo è un rimedio inefficace: vale quanto una fragola  in bocca ad un orso affamato.

                              

Chésse passa glie chemmiénte!

     Questo posso offrirti a pranzo; di più non posso: adàttati.

 

Che té nen se pò né córre né cammenè.

     Con te non si riesce mai a trovare un punto d'incontro.

 

Chiglie tè la jencèrta appésa ‘ncure.

     Quello è fortunato, come chi ha la lucertola appesa nel sedere.

 

Chisse è cómm'alla jatta: tè sètte spirde[3].

     Quello lì non si arrende mai: più le cose gli vanno male, più riprende aire.

 

Chisse? E' glie meschitte 'lle vine.

     Codesto è uno scaltro, trova sempre la soluzione giusta, come il  moscerino trova sempre il vino migliore.

                                                                                 

Chisse la sa longa; ma nne la sa racquentà, prò!

     Codesto fa il furbo; ma non la dà a bere a nessuno.

 

Chisse? Nen conta i nn'accócchia.

     Codesto è un inetto.

 

Chisse suo’ tazze i quecchiara assiéme.

     Quei due se la s'intendono bene, come se fossero tazza e cucchiaio.

          

Ci acchempagna le sécca i la mmala staggióne.

     Si aggiunge male a male. Tutto ci va storto.                                                                     

 

Criste glie fa, glie diàvere gli accócchia.

     Cristo li fa nascere (pazzi); ma, saggiamente, li tiene separati. Ci pensa il diavolo, poi, ad unirli ed allora son guai per tutti.

 

Di’ nen pègge, vah!

    Contentiamoci, via, ché ci sarebbe potuta andare peggio!

 

E' brode de checózza.

     E' inutile insistere: non caveremo un ragno dal buco.

 

E fenite glie tiémpe de batte batte;

è chemenzate chiglie de scióscia scióscia.

     Vorresti approfittare della mia bontà? Non pensarci neanche.[4]

  

E' inùtele che fìschie, sse gli asene nne vo’ béve.

     E' inutile che insisti con chi non vuol capirti.

 

E' la mesèria che fa gli ome ‘gnorante.

     E' la povertà che rende l'uomo inetto (a scuola, nel lavoro, nel comportamento). Altrimenti…

 

E’ ‘na canna!

     Abbiamo fatto un lavoro perfetto, pulito come una canna (che non ha rami).

     Questo rimedio è efficacissimo.

 

Eh, quanne Criste te requète... te vo’ bène!

     Quando Cristo viene a farci visita, inevitabilmente rileva qualche nostra colpa e allora ci punisce mandandoci qualche disgrazia (malattia grave, lutto in famiglia ecc.). Così ci vuole bene, Lui.

                                                                                                            

E' passate gli Angele i è ditte "ammènne".

     Ci va tutto bene: probabilmente è passato il nostro Angelo Custode, che ha ascoltato le nostre preghiere.

 

E' questióne de màneche!

     Se il lavoro viene male, è sempre colpa di chi lo esegue, che non possiede le capacità necessarie.

     Se le cose vanno male, è sempre colpa di chi comanda, che evidentemente è un inetto.

 

E va bè, disse glie mònache a Matalè.[5]

     Non sono affatto d'accordo, ma mi adeguo alla situazione.

 

Gli asene currene i glie cavaglie remènen'arrète.

     Gli incapaci ottengono incarichi e riconoscimenti (spesso con  mezzi poco  puliti), mentre i più meritevoli rimangono al palo.

                                                                                    

Glie cegliucce: se nen zómpa, nze 'mpara a velà.

     L'uccellino se non cade dal nido,  non impara a volare.

     Se la cosa ti è andata male, non scoraggiarti, ché ti servirà come esperienza per il futuro.

 

Glie gliupe fa glie gliepitte.

     I figli, in quanto a cattive abitudini, imparano dai genitori.

 

Glie pecciune portane a bève le pàpere, tèh!

     Eccoli là, gli sciocchi, che pretendono di insegnare ai più esperti.

 

Glie rospe: a dó’ nen ci arriva, ce piscia.   

     Alcuni, quando  non  riescono  ad  ottenere  una cosa, la disprezzano (a parole). Ovverosia: “Nondum matura est” esclamò la volpe quando non riuscì a cogliere l’uva dalla pergola troppo alta.

     Ma esiste anche il contrario: Chi desprèzza, compra, come si usa fare al mercato nel tentativo di abbassare il prezzo della merce.

 

Glie solde stève alle scòmmede.

     Chi vuol guadagnare, deve soffrire (sudando, perdendo il sonno, emigrando ecc.), come la capra che, se vuol brucare i germogli più teneri, deve arrampicarsi sui dirupi più pericolosi.

                                                                                     

Glie vestite t'è rescite curte, 'sta vota.

     Questa volta t'è andata male, perbacco: ti hanno smascherato.                 

 

Ie me respàrmeje mógliema aglie liétte i gli atre se la guódene pe le fratte.

     Io faccio i sacrifici e gli altri ne raccolgono i frutti.

 

La cecala: canta canta i puó se schiatta.

     I pettegoli sparlano a più non posso, ma in effetti crepano d'invidia.

 

La fertuna 'glie peveriéglie è cómm’a chélla ‘glie quetture:

ancine ‘ncanna i fuóche ‘ncure.

                                                                                    

La jaglina fa gli uóve, glie jaglie se lamènta (o ce ‘ncènne glie cure).

     Qui qualcuno si attribuisce meriti che non ha.

                                                                                    

La magnatóra s'è restrétta!

     Le condizioni di favore son finite, ormai (come quando finisce il fieno all’asino).

 

La maraviglia coglie! Oppure Sénza mmaraviglia!

     Chi si meraviglia troppo degli altri, prima o poi sarà oggetto di  meraviglia da parte degli altri.

     Bisogna sempre comprendere e perdonare gli errori altrui.

 

La ràscia è castiche de Di’.

     L'abbondanza è una sventura, poichè genera sprechi, pretese smodate e cattive abitudini.

 

La rota, pe fàlla gerè, se tè panógne (ungere).

     Omologo di S. Biace[6] è nate prima de Criste.

 

La sciénza ‘nfósa de fìglieme Pasquale: a ‘ne capescala c'è fatta 'scì ‘na rellétta.

     La grande scienza del nostro amico: da un sottoscala ha ricavato un piccolissimo pollaio.

     Si dice a chi crede d'aver realizzato chissà quale grande opera.

 

Le curte va sèmpre da piéde (come nei pantaloni).

     E' omologo di Le pègge vè sèmpr’apprésse.

                             

Léna de fìquera i carne de crapa (sono due elementi scadenti).

     Abbiamo accolto l'ospite in modo poco adeguato.

 

Le petére (energia) a primavera se ne va aglie albere (ed a noi umani rimane la spossatezza).

                                                          

Le vine buóne se vénne pure sénza frasca (o fróscia)[7].

     Chi ha buone qualità, non ha bisogno di vantarsene.

 

L'ora 'glie féssa passa a tutte.

     Anche i più accorti a volte incappano in qualche inconveniente.

 

Mmala nettata i figlia fémmena!

     E’ omologo di ‘Ncim'alle cuótte l'acqua veglita. 

     Andiamo di male in peggio. Nonostante gli sforzi fatti, non abbiamo risolto il problema.

                                           

Mìttele (le cervèlla), ca fè ancora a tiémpe!

     E' omologo di Rammèntate, o pazzacchió (cerca di rinsavire, o gran pazzo)!

 

Mó s'abbòtta pur'isse (o Mó t'abbuótte pure tu o Mó v’abbettate pure vu)!

     Ora si sta riempiendo la pancia pure lui. Ma a che pro?

     In senso di scherno verso chi, magari usando mezzi illeciti o danneggiando gli altri, persegue un fine particolare che, a ben guardare, non risolve la sua situazione generale e tanto meno gli migliora la qualità della vita.

 

(Se) ‘mpózze vatte (battere) gli asene, vatte glie mmaste (basto).

     Se non posso farlo scontare ad uno, lo faccio scontare a  un altro.

 

N'è fatte cchiù chiglie (de malazziune) che Carle 'n Francia[8].

                                                                                       

Nesciune sa chélle che sta sótte aglie cappiéglie 'e gli òme.

      L’uomo è imprevedibile: le sue capacità si rivelano quando e come meno te lo aspetti.

 

Nóne, vèh! Ca ce passa glie paraddevise.

     Non farlo, per carità, ché la sconvenienza della cosa balzerebbe subito all’occhio del pubblico (dal lat. paret de visu).

 

O-òh! Me ne dài di pene (in lingua italiana).

     Forma scherzosa di saluto in uso, soprattutto fra le donne, negli anni Cinquanta. L'esclamazione, spesso scambiata a distanza notevole, si sentiva echeggiare a tutte le ore e in tutti i luoghi ed aveva all'incirca il seguente significato: "Ciao,  caro! Sei un poco di buono e a me non la dài ad intendere. Tuttavia ti voglio bene ugualmente.”

 

Ormaje c'è ita la vacca alle fave (o alle fóglia).

     Ormai quel ch'è fatto è fatto.

     Ora che ci siamo, godiamoci questo momento, ché al resto penseremo dopo.

 

O trische o spicce l'ara (o sgrani le spighe o liberi l’aia).

     Deciditi, finalmente. Che vuoi fare?

 

Pènza a merì, tu, ca ce sta chi te porta (al cimitero).

     Occupiamoci di questo, ora; poi penseremo al resto.

                                                                                

Pe rrenchì la panza, ce vuóte glie maccarune nno le chiacchiere.

     Qui si stanno facendo chiacchiere inutili.

 

Sacce ché i sacce cómme... i puó?

     M'hai promesso che avresti fatto questo e quello: perché poi non hai mantenuto la promessa?

 

S'agliótte tutte, glie pappacce!

     Crede tutto, l'ingenuo, come il tacchino che inghiottisce tutto quello che trova.

 

Sciateddì (sia lodato Dio)!

     Esclamazione usata dalle donne per esprimere meraviglia e diniego. Esempio: “Marì, me dè ‘ne bace?”, “Eh, sciateddì!” (Ma ti pare che una ragazza seria e riservata come me possa fare una cosa del genere con un estraneo come te?). Ha lo stesso valore di Novantanove i ciénte! (quest’ultima, invece, usata anche dagli uomini).

                                                                                  

Scìne ca glie diavere è nire! Prò cchiù nire 'lla mèsanotte nze pò fa.    

     E’ omologo di “Di’ nen pègge, va'!” Tutto ci va male, d'accordo! Ma consoliamoci, ché peggio di così non potrebbe andare.

 

Scìne ca scìne! Ma ma ma...  

     E’ come dire “Errare humanum est, perseverare autem diabolicum” e cioè: Suvvia, ora stai veramente esagerando.

 

S'è fatte venì la frève (o le male).

     E' divenuto impaziente, non sta più nella pelle.

 

"Se pozza cecà le male i chi le tè, bèh!" disse Mémma a Gevannèlla, che era malata, per consolarla. Evidentemente s'era confusa con l'altro modo di dire  "Se pòzzane cecà glie solde i chi glie tè, bèh!"

  

Sié fatta la ita 'glie cuórve!

     Sei andato e non sei più tornato, come il corvo biblico.  

 

Se cace recotta coglie!...

     Se le cose vanno come speriamo noi, saremo a cavallo.

 

So’ fatte Sante Leriénze alle merìquela (o alle fìquera, alle méla, all'uva ecc.).

     Ho assaggiato le prime more (o fichi, mele, uva ecc.) di stagione.

 

Sse se more ‘ne papa, se ne fa ‘n'atre.

     Non prendiamocela troppo: all'inconveniente rimedieremo in qualche modo.

 

Stame a fà l'arte 'glie pazze.

     Facciamo e disfacciamo il lavoro senza venirne mai a capo, come fanno i pazzi. Vogliamo concludere?                                                                                     

 

Suo’ glie puce ippure tiéve la tósse.

     Sono persone da poco, eppure se la  pressùmene. Traduzione dal latino “Vasa inania multum strepunt” (i vasi vuoti fanno molto rumore).

                                                                                    

Te so’ sgamate pure a tè, te so’! 

     Ho scoperto anche te, infine: sei un approfittatore come tutti gli altri.

                                                                                    

Tié ‘ne nase! Se fusse pèquera, te merive pe la fame.

     Hai un naso spropositato: se fossi pecora, moriresti di fame, poiché il naso t'impedirebbe di brucare l'erba.

 

Tocca, to'! (accennando con la mano ad andare avanti).

     Vai  a dar fastidio a qualcun altro, vai!                                                                                                                         

 

Tu chiègne glie muórte i friche glie vive.

     Tu ti lamenti sempre (senza motivo) e intanto approfitti del buon cuore degli altri.

 

Tu cunte quant'a ‘ne canciéglie agli uórte.

     Tu vali poco, cioè quanto un cancello messo all'orto per impedire al vento di entrare.     

 

Tu liégge sèmpre aglie stésse libbre.

     Tu ti comporti sempre allo stesso modo, cioè egoisticamente o ragionando a modo tuo: di te bisogna diffidare.

     Richiama alla mente il “timeo lectorem unius libri” di S. Tommaso d’Aquino.

 

Tu nne vuo’ né tené né squertecà.

     Tu non vuoi né reggere (l’agnello, il maiale ecc. da ammazzare) né scorticare, cioè non vuoi fare nulla. Sei troppo indeciso (o pigro).

 

Tu sié trevate Criste a mète i san Piétre a raccò la spica.

     Tu hai trovato chi ti serve a puntino.

 

Tu sié trevata la magnatóra bassa (o chiéna).

     Sei un asino a cui gli altri hanno procurato tutto l'occorrente.

 

Tutte le mósche vève alle mèle.                                            

     Ognuno va dove trova il proprio tornaconto.

 

Tu tié la fune truóppe longa.

     Sei un asino a cui è stata data troppa libertà di movimento.

     Ti prendi troppa confidenza.

 

Uéh, chi ‘nze more se revéde, tèh!

     Uèh, ti sei rifatto vivo finalmente? Pensavo che fossi morto.

 

Vaglia ‘nnóre de Di’ (o ‘lla Madonna o 'll'aneme sante 'e glie Prejatòreje)!

     Questo dono (o sacrificio) che faccio vada in onore di Dio (o della Madonna o delle anime sante del Purgatorio).

 

Vaglió, fatte furbe (ca féssa già ce sié).

 

Vane, va'! Vane a ‘ncantà le nénghie, ca scì chiove!

     Vai a dar fastidio a qualcun altro, vai!

 

Vatt' a fà rebbendice, vèh!

     Hai una sfortuna addosso! Fatti ribattezzare, per carità.                             

 

Vatt'a refréca tu quanta gire fa ‘na boccia!

     Son tanti gli imprevisti della vita: non bisogna meravigliarsi di nulla. 

 

Velisse famme fà ‘mbrènna[9] che le fóglia, tu?

     Dopo una dura giornata di lavoro, vorresti darmi per pranzo un piatto di verze, che sono un cibo notoriamente scadente?

 

Voce santa mia de Di’, ca nn'è bescì'.

     Voce santa mia di Dio (campana della chiesa), che  non è bugia!

     E' talmente vero quello che sto dicendo, che la campana di Dio lo conferma facendo sentire i suoi rintocchi.

 

Prima di rientrare nella mandria, le pecore vengono munte ad una ad una.



[1] Dal lat. scyphus, coppa, recipiente. Qui sta ad indicare quel grosso piatto rettangolare di legno che veniva utilizzato per trasportare pagnotte di pane, per versare e condire tagliolini o polenta, “ pe scéglie” (per liberare dalle impurità) il grano, il granturco, i ceci, le olive ecc., per mettere ad essiccare conserva, fichi, mele o zucchine o peperoni tagliati a strisce ecc. Le scife migliori erano quelle ricavate da un unico blocco di legno di faggio, lavorato a mestiere da uno dei tanti artigiani o boscaioli del paese.

[2] Santa Degna è la protettrice della “parola” (capacità di esprimere concetti). A lei si rivolgevano le mamme per far parlare presto i bambini. La chiesa della Santa si trovava alla Valle (oggi Largo Vescovo Ruggieri e parte del Corso Umberto I), a sinistra della strada che dal Corso Umberto I scende a via Guglielmo Marconi.

[3]E' credenza popolare che il gatto abbia sette vite in una; sicché chi volesse ammazzarlo, dovrebbe farlo sette volte.

[4] Ogni sera, dopo il lavoro nei campi, la padrona di casa accendeva il focolare e cuoceva la pizza sotto al coppo e quando la cacciava, ci batteva sopra con una mano per far cadere la cenere: pac pac pac. Il compare al rumore si presentava e mangiava pure lui. Siccome la storia si ripeteva spesso, la padrona smise di battere sulla pizza e prese a soffiarci sopra, sicché il compare, non sentendo il pac pac pac, arrivò in ritardo, quando la pizza ormai era finita.

     - Bìvete ‘ne becchiére, chempà! – gli disse allora la padrona di casa.

- Eh, chemmà, nen so’ magnate, ancora. – rispose quello.

- Eh, chempà, – ribatté l’altra – è finite glie tiémpe de batte batte: è chemenzate chiglie de scióscia scióscia.

                                             (Raccontata da Croce Mario Cianfarani e da sua moglie Adele)

[5] C’è anche l’altra versione: “Strìgneglie bène, disse glie monache a Matalèna”; ma non fa parte della cultura pescosolidana.

[6] Il 3 febbraio (S. Biagio) il prete in chiesa con un batuffolo di cotone unge il collo ai fedeli  con l'olio benedetto, per preservarli dal mal di gola e dalle altre malattie dovute al freddo. S. Biagio, pertanto, è sinonimo di olio, prodotto principe dei nostri campi, il quale, oltre ad essere largamente usato come alimento, una volta, quando le pretese erano più contenute, veniva regalato per ottenere un favore o una piccola raccomandazione. E chi regalava l'olio, "seccómme ca tenéva le mane ‘mpeccète dalla bettiglia, abbessèva (alla porta del suo benefattore) ‘nche glie piéde". Sicché chi "abbussèva ‘nche glie piéde", era colui che faceva regali per ottenere cose che mai avrebbe ottenuto per merito o per diritto.

[7] Nei tempi andati il contadino che aveva vino in esubero, se voleva venderlo in proprio, appendeva una frasca con foglie verdi (normalmente di leccio) fuori della porta di casa, così tutti capivano e andavano a bere o a comprare un fiaschetto di quello paesano.

[8] Quasi certamente si tratta del re Carlo VIII di Francia, che, quando venne dalle nostre parti (1495), causò danni notevoli (tra l’altro distrusse Monte S. Giovanni Campano).

[9] Merenda, che per chi nel passato lavorava nei campi costituiva il pranzo principale della giornata.