Il Liri per me finiva a
Valfrancesca. I miei
ricordi d'infanzia non si spingevano oltre i pioppi che fanno corona
al fiume, oltre il verdeggiare di campi, macchie, boschetti che si
alternano fino alle Compre, limite veramente estremo delle mie
esplorazioni. Al di là di quel confine, dopo il cotone e la
passarella, esistevano soltanto il panorama, i racconti dei miei e
le costruzioni della mia fantasia.
La Val di Comino era laggiù, dove il Liri si
nasconde fra i monti; Balsorano col suo Castello segnava il confine
della Ciociaria con gli Abruzzi, ma soprattutto, da quella parte io
sapevo che c'era Pescosolido. Lo si vede, da Sora, aggrappato a
mezza costa dell'anfiteatro di monti, piccolo paese da presepio,
scintillare quando il sole batte. Pescosolido è stato per me sempre
un simbolo. Quel piccolo agglomerato di case, tutte unite da una
malta fatta di umanità, costruzioni strette una allaltra quasi a
sorreggersi e proteggersi vicendevolmente, mi era noto, oltre che
per la visione panoramica che ne avevo per i molti racconti che
ascoltavo in famiglia.
Cinquant'anni fa o forse più, anche se le
automobili cerano già, da Sora a Pescosolido si andava con una
carrozza o col break, che lentamente sinerpicavano tirati a fatica
da ansimanti ronzini. Ma ci si andava anche a piedi, costeggiando,
per qualche chilometro, il mormorante Liri e quindi addentrandosi in
sentieri e tratturi odorosi derba. Era la strada nota ai contadini
che scendevano a Sora a vendere ortaggi ed altri prodotti della
terra, ma era anche la strada dei nonni che con la buona stagione
andavano a visitare la loro casa avita.
Lassù, vicino al Castello. Da essi conobbi mille
storie di tanto tempo fa, e da allora Pescosolido divenne per me un
simbolo. Il simbolo dei tempi andati, di un mondo diverso per
abitudini, costumi e mentalità che io localizzavo in quel paesetto
arrampicato.
Un giorno o l'altro, mi dicevo, debbo andare a
Pescosolido. Debbo andare a vedere i luoghi in cui si sono svolte
tante di quelle storie che popolavano la fantasia di bambino al
posto dei personaggi tradizionali delle fiabe. Perché la mia
fanciullezza non conobbe tanto le fiabe, ma quellunica,
interminabile fiaba della storia di tanto tempo fa, vissuta dai miei
nonni o dai miei bisnonni, che costituiva il più affascinante dei
racconti. Antiche storie di principi, di guerre, il bandito Chiavone, il terremoto, ed una infinità di piccoli personaggi che
con le loro esperienze di vita, lassù come dappertutto, hanno
costituito quel patrimonio di saggezza popolare che si tramanda di
generazione in generazione.
Ma non mi decidevo mai a far quei nove chilometri,
ogni volta che andavo a Sora, per paura di perdere lincanto che
quelle storie avevano creato in me. Figure idealizzate ed irreali,
di un mondo fuori del tempo, i personaggi delle storie di
Pescosolido avevano il valore di un ideale, come quelli che,
coltivati nella fanciullezza e negli anni della giovinezza,
rimangono immutati ed immutabili di fronte allevolversi della
personalità e dell'esperienza. Fantasmi nei quali sono interpretati
i valori della vita, del bene e del male, della violenza e della
mitezza, della ricchezza e della povertà, della santità e del
peccato. Ma un giorno, in capo alluna dopo mezzogiorno, saltai in
macchina e, senza quasi pensarci su, mi avviai. A metà tragitto,
quando la strada già sinerpicava, mi voltai a vedere il paesaggio
sottostante: Sora, più grande e sfavillante di come lavevo sempre
creduta, ed il bel fiume che esce dal verde e sinsinua fra le case,
come ad offrirsi in un opulento e benefico abbraccio. Anche se assai
più piccola, centanni fa, al contadino che scendeva dal Peschio,
cosi doveva apparire la città, piena di promesse e di speranze.
Quasi volevo riscendere, ma la strada era stretta e la conversione
difficoltosa Giunsi al paese e lo trovai quasi deserto: un vecchio
spingeva avanti il suo asino che arrancava sul selciato facendo su e
giù col testone. Lasciai la macchina e raggiunsi a piedi la Chiesa
Madre, ritta sull'erta ripida di una roccia. Salii la lunga scala e
spinsi la porta della chiesa. Era chiusa. Mi sedetti sul parapetto
della scalinata e mi guardai attorno. La solitudine non rompeva
lincanto della mia immaginaria visione di Pescosolido. Forse se
avessi visto, come ce ne saranno senzaltro, un ragazzo con la radio
a transistor, o transitare un camion, lincanto si sarebbe rotto. Ma
quel silenzioso meriggio autunnale mi conciliava le reminiscenze. Il
vuoto parve riempirsi di immagini, un po confuse nel tempo e un po
sfocate nei contorni, ma mi accorsi di godere.
Le case aggrappate luna allaltra, mute e
dignitose, quella pace degli uomini, seduti forse a tavola per il
desinare o fuori in campagna a lavorare, favorirono il mio
abbandono.
Pescosolido è molto antica, anche se non dimostra
tutta la sua anzianità. La tradizione ne fa risalire le origini ai
primi secoli dellera cristiana, mentre la storia laccompagna a
tutte le vicende della Terra di Lavoro e del Ducato di Sora.
Franchi, Svevi, Normanni, Angioini, Aragonesi, dominatori italiani e
stranieri, si alternarono nel possesso del territorio attraverso i
secoli. Notevoli studiosi hanno menzionato nelle loro opere questi
«passaggi di proprietà». Ma questo lho imparato dai libri.
La Pescosolido dei racconti dinfanzia è invece una
piccola comunità, fra lottocento ed il novecento, popolata di
piccoli uomini, ma grandi nella mia immaginazione. La Chiesa che ho
alle mie spalle, mentre ammiro il paese, non lho mai vista, ma ho
ben preciso nella mia mente il quadro di don Paolo, che vi fu
parroco, affaccendato nelle sue funzioni. Il buon « zi Paolo » dei
racconti, che faceva la predica in dialetto ed esaltava SantIsidoro
contadino, che era «bianche uscie» perché aveva mangiato il pane di
granone, come i contadini del luogo. Era il parroco che sapeva
parlare un linguaggio semplice e sincero, che conosceva tutti e
tutti chiamava per nome, ma era anche lo studioso ed il letterato di
grande ingegno. I racconti me lo fanno ricordare indaffarato per una
visita del Vescovo, grande avvenimento per il paese. E le storie di
Chiavone, il famoso bandito che terrorizzava la zona allindomani
dellUnità d'Italia. Nel silenzio del borgo. sembra quasi di udire
lo scalpitare dei cavalli della sua masnada che al galoppo fugge
dopo la razzia. Ed i lunghi inverni con la neve, quando i lupi
scendevano dallAbruzzo e spinti dalla fame si avventuravano fin
nelle strade del paese. Interminabili erano le storie di caccia ai
famelici animali, ed una miriade di personaggi, perfettamente
delineati nelle descrizioni ma ormai quasi cancellati nei ricordi,
saffollano in queste storie di lupi, dove, perenne motivo,
saffaccia la dura lotta per la sopravvivenza contro le avversità.
Una lotta semplice e coraggiosa, come la gente di queste parti.
Talvolta impari, come per il terremoto Una mattina, cinquant'anni
fa, la terra tremò sul far del giorno. Le case si squarciarono.
Voragini saprirono, e la popolazione si trovò, nel breve giro di
qualche attimo, nella più angosciosa disperazione. Quelli che
sopravvissero. Più di cento rimasero sotto le macerie e sotto la
terra sconvolta. Ancor oggi, come nei racconti della nonna, il tempo
trova nei pescosolidani una delimitazione: prima del terremoto e
dopo il terremoto. Ma è forse cambiato il paese, dopo la distruzione
della furia tellurica. Mi guardo intorno e credo e spero di no. Dai
racconti lho sempre immaginato così. Ed i ricordi si fanno ancora
avanti prepotentemente, quasi a saldare ad una realtà di oggi i
fantasmi della mia fantasia fanciullesca.
Nonnò (mio bisnonno), segretario comunale per
settantanni, che incontra un giovane per la strada, e gli dice «Tu
devi fare la visita di leva», oppure ad una giovane che sta per
sposarsi: «Le pubblicazioni sono pronte». Egli infatti conosce a
memoria i visi di tutti i cittadini e sa perfettamente quali sono le
loro situazioni anagrafiche. I fratelli Biancale - Bernardino,
Domenico e Rocco - insigni pittori, che vengono da Sora per
affrescare e decorare la Chiesa. E le famiglie. Quelle di cui
ricordo i nomi. Quella dei Ciccolini, che vanta numerosi
ecclesiastici fra i suoi componenti, i Tuzii, i Matachione e,
naturalmente, i Giovannetti, che hanno dato a Pescosolido ci
parroci, sindaci, e per oltre un secolo segretario comunale. E poi i
Mariani, i Ruggeri, i Piazzoli. Tutti nomi, questi, rimasti nella
mia memoria perché legati a vicende e racconti sul passato di questo
illustre paese. E poi tante altre piccole figure, quasi anonime,
come il campanaro Francescuccio, noto per le sue facezie, la balia
Crocifissa, e le prefiche, donne che venivano pagate per piangere ai
funerali. In questo scomposto turbine di ricordi, rivivono i simboli
che furono per me legati alle vicende di questa gente. Perché, al
pari delle favole antiche, le storie che mi venivano raccontate
avevano una morale, che oggi mi sfugge, ma che nei suoi principi
sento in me, legati alleducazione ed alla formazione.
E qui mi pare che possa ravvisarsi un contenuto
valido nella storia di tante persone note ed ignote che vissero in
questo piccolo, sperduto e sconosciuto paese ai margini della terra
ciociara. Un paese che viveva una vita, semplice forse, ma densa di
contenuto, ispirata a valori morali perenni, ad una sana e coerente
impostazione dei rapporti umani, tale insomma da lasciare traccia.
Tanto che i miei avi, i miei genitori vi hanno trovato da attingere
per le storie da raccontare ai propri figli. La favola vera insomma.
Ai personaggi fantastici delle fiabe, creati apposta per creare un
modello di vita, si sono potuti sostituire personaggi realmente
esistiti, sia pur e in tempi andati. Dubito molto che potremo
raccontare ai nostri figli o ai nostri nipoti, storie del nostro
tempo, con un qualsiasi intento educativo.
Forse per questo sono stato contento di non aver
incontrato nessuno nella mia prima ed unica visita a Pescosolido.
Non vi tornerò più, per non rompere questo incanto.
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